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L'IMPERATRICE IN SALVO

MANIFESTO DEVOZIONALE AL FEMMINILE TRASCENDENTE

Ho bisogno di un Tempio.
Ma il permesso di edificarlo non mi è stato ancora concesso: ho dovuto trasgredire questa burocrazia.

Voglio accoglierti nel mio Tempio.
Ma dovrei spiegarti che mio significa nostro, e che quanto è sacro di mio, non mi appartiene che per il breve tratto che ci separa dal Tempio. Infatti, nel Tempio, io non sono nessuno.
E questo è il primo sollievo.

Il Tempio è l’antidoto alla presunzione di una struttura che potremmo ritenere indispensabile alla costruzione del quotidiano funzionamento, ma la cui degenerazione – illusoria e perversa – impedisce lo sviluppo dell’umano. Umano inteso nella sua molteplice complessità dal nucleo oscuro, che come un buco nero risulta insondabile da strumenti di misurazione oggettivi.

Nel Tempio, questo mistero è oggetto di contemplazione. Intorno alla sua percezione ci si dispone come sulla riva di una fonte troppo profonda perché lo sguardo possa coglierne il fondale. Se ci affacciamo sulla superficie dello specchio d’acqua, questa ci rimanda la nostra stessa immagine in forma di rinnovato enigma.

Ma sarebbe ingenuo negare il talento dell’architettura maschile-strutturale: un Imperatore potente, risoluto nel dimostrarsi capace di edificare un mondo produttivo che regga a tutti i costi la realtà materiale da cui dipende il suo prestigio. Chi oserebbe dubitare del suo righello? È con lucidità e misura esatta che si pianificano le violenze necessarie e si collocano le dovute sbarre contenitive.

Alla corte di questo Imperatore privo di devozione, fare Tempio non è solo sconsigliabile, ma persino pericoloso, poiché le fondamenta del palazzo imperiale sono edificate, e perennemente ristrutturate, sulla soppressione di ogni mistero autentico. Senza mistero, infatti, il Tempio non è che ulteriore struttura di contenimento e organizzazione sotto forma di spiritualità surrogata.

L’integrazione del mistero autentico è impedita da ogni margine della struttura. L’umile accettazione del mistero illuminerebbe la relatività dell’ordine e dell’imposizione di gerarchie maschili-strutturali. È l’esilio del mistero a legittimare la violenza peggiore: quella spirituale. La sistematica soppressione della dignità spirituale riduce lo sviluppo individuale a processo di adattamento, il cui raggiungimento, con l’ingresso nella vita adulta e (ri)produttiva, coincide con la fine della crescita, l’accettazione dell’uguale a se stesso, in attesa della degenerazione materiale che conduce alla morte.

La violenza spirituale si pone come premessa, presupposto che legittima con disinvoltura ogni successiva forma di violenza e sopraffazione perpetrata all’interno della struttura.

Addestrare al compiacimento dell’autorità istituzionale: è l’educazione il macello incaricato di recidere la percezione del mistero – così vibrante, durante gli anni dell’infanzia! - riducendolo a scarto di lavorazione.

Il cucciolo affronta la sua crescita confrontandosi con un programma di addestramento che si propone il nobile proposito di educarlo alla vita: ma il percorso tracciato è privo di quelle autentiche iniziazioni che lo preparerebbero al pieno confronto con l’esistenza.

Ci si abitua a fornire costantemente una didascalica dimostrazione di profitto, scandito al ritmo della competizione: ovvero il misurarsi con parametri stabiliti dall’esterno, nel limite dei quali, l’altro non è che antagonista il cui valore minaccia la dimostrazione del proprio. Allevamento di sudditi, lavoratori, consumatori che ripudiano la morte, rimuovendola dall’attività cosciente e dalla percezione della vita, concepita come un bene materiale il cui godimento deve essere protratto a prescindere dalla sua qualità e dalla percezione del suo significato. Questa rimozione si vendica con la vita dalla quale è stata esiliata: così la morte diventa fine angosciante e impensabile, legittimando la paura costante e la deformazione etico-morale giustificata dall’imperativo della sopravvivenza.
Allora l’Imperatore privo di devozione fornisce il confortante protocollo, l’antidoto alla paura di sentirsi consumati, terminati, infettati, contagiati dal nucleo stesso della vita: dalla sua imprevedibile trasformazione, dal suo costante e molteplice sviluppo.

Privati dell’intimità con la nostra morte, siamo privati della libertà di scegliere la nostra vita, impossibilitati allo sviluppo di quella forza d’animo che sa tradursi in libertà interiore. Al contrario, spinti dalla paura per la verità mortale, preferiamo essere deboli, accontentandoci del surrogato di una autentica libertà individuale: superficiali e ideologici individualisti incapaci di farsi individui.

Come ristabilire un contatto con quell’inquietante forza individuale? Nel Tempio, l’infanzia è metafisico inizio, contatto residuo con la verità integra e perduta. Fonte leggendaria della fiaba irripetibile che ci vede protagonisti ma che abbiamo dimenticato di interpretare, ritenendola priva di vantaggio e utilità. Rifiutiamo di essere mito incarnato, simbolo vivo dell’espressione vitale che chiede di essere messa in scena.
È nell’infanzia che custodiamo la certezza di essere stati voluti dall’esistenza.
Nell’infanzia abbiamo intuito l’angoscia del buio e dell’infinito, reduci dal distacco con quella fonte originaria in cui tutto era noi, e noi eravamo tutto.
Nascere, rinunciando a quell’unità, non dev’essere stato facile.

Nascere nuovamente, rinascere: tornare a morire, e quindi, finalmente, vivere.
È con questo intento che si spalanca l’ingresso del Tempio, altrimenti sigillato.

Nel centro del Tempio, seduta sul suo trono, l’Imperatrice non fa che partorire, ignorata, il nostro presente. È lei che si contrappone fra noi e il nostro ritorno al suo grembo notturno, quello che crediamo essere la fine.
È nel drappeggio che avvolge le sue fattezze inconcepibili che il femminile-trascendente compie il suo miracolo continuo.
L’esistente, rimescolato con gli ingredienti previsti dalle ricette stabilite dalla natura, ci appare sotto forma di vita e di morte, intrecciate da una logica che possiamo dedurre parzialmente, e definire con l’illusione di saperla dominare.

Nel raggiungere l’Imperatrice, e nel confrontarci con la sua controparte di Notturna Morte, il nostro sviluppo riprende: torna nelle sue mani decrepite e bambine.
Impastati nuovamente, diluiti nell’acqua di quella fonte oscura e pericolosa che ricompone il disegno di un viso segnato dall’esperienza umana.

Iniziati al suo mistero, che è il nostro, possiamo tornare a specchiarci in quell’acqua nera, altrimenti terrificante, e infrangere l’immagine del nostro riflesso. Essere, di nuovo, nessuno. E con quale sollievo. Ora possiamo osare, e immergere le dita perché afferrino quei tesori splendenti e ripugnanti che ci aspettano, e trascinarli fuori dall’acqua che li nascondeva e conservava.
Questi tesori ci appartengono da sempre, ma noi dobbiamo imparare a usarli.

Ogni tesoro è frammento di quel femminile-trascendente ridotto e diluito perché ci sia sopportabile. Un frammento sproporzionato potrebbe sopraffarci, rischierebbe di ucciderci. Con questi tesori possiamo comporre il nostro testo sacro. Un degno corredo per ristabilire la dignità spirituale perduta.

Ogni forma ispirata è composta brandendo lo scettro di questo corredo. Immagine, suono, parola, azione nel mondo: ancorandosi alla nostra percezione, ci scaraventano altrove, dove la fonte scorre, bagnando la pelle che credevamo inaridita.

Dove finiamo scaraventati: può apparirci dilemma terrificante. Succede quando l’Imperatrice si presenta nella sua veste notturna, minacciando di negare - dopo averci inghiottito - di restituirci al presente.
È allora che la struttura dell’Imperatore devoto dovrebbe fornire il suo appiglio.
Strutturarci con devozione al mistero che incarniamo: è questa la condizione di equilibro che spalanca le porte del Tempio, perché chiunque possa esservi accolto senza pericolo.

Nell’Immagine simbolica, devota al femminile-trascendente, io cerco l’accesso a questo inedito e terrificante equilibrio.
Componendo la forma materiale che trascende se stessa e che mi scaraventa nel Tempio, io sento il senso della mia esistenza, e la bellezza della mia mortalità.

Portare in salvo l’Imperatrice è assumersi la responsabilità di un destino che si delinea solo se tracciato dal nostro segno individuale e mortale, vulnerabile, che non consente delega.


Rada Koželj

14 novembre 2021